domenica 17 novembre 2013

I finally give up

Il suo suo piede sfiorava lentamente il margine della sedia, disegnandolo, accarezzandolo quasi si fosse trattato di un animale a cui dedicare le proprie attenzioni.
Lentamente, per un verso e per l’altro, potendone sentire l’angolo appuntito sotto la pianta nuda e sensibile, percependo i piccoli e sotterranei brividi che quel contatto le provocava. Poteva sentire qualcosa, poteva ancora sentire qualcosa. Per ora. Ma ben presto tutto sarebbe finito.
Spesso si dice che sia necessario osservare le cose da un’altra prospettiva per poterle comprendere e in effetti la cosa stava funzionando anche per lei. L’unica differenza era che lei aveva già capito ciò che era necessario capire e il vedere la stanza da quell’altezza non poteva che rendere i suoi pensieri ancora più chiari di quanto non fossero stati quando aveva preso quella decisione.
La paura, per quanto lei si illudesse di essere in grado di tenerla a bada, strisciava ancora in lei, infida, attendendo solo in momento in cui avesse potuto prenderla alla sprovvista. Se solo avesse abbassato la guardia, il terrore l’avrebbe trovata priva di difese, seducendola con le sue tremende e così allettanti parole, assalendola alla gola.
Ne poteva sentire la morsa, costante, minacciosa eppur portatrice di così tante liete promesse. Il pizzichio che sentiva sul collo per colpa della spessa corda era quasi il riflesso del bruciore che le proveniva da dentro, quel nodo fastidioso paragonabile a tanti piccoli spilli che la pungevano senza sosta.
Che la pungevano nella gola.
Negli occhi.
Nel cuore.
Ma non era tanto dolore quello che stava provando quanto piuttosto senso di colpa e vergogna per quello che stava per fare, per quello che le era sembrata la cosa migliore da fare.
La cosa più logica. La più giusta.
L’unica cosa che le era rimanasta da fare.
Per quanto si fosse sempre professata contro quel gesto estremo, sapeva che al mondo non le era rimasto più nulla per cui valesse la pena lottare. Aveva perso tutto. La propria dignità, la felicità, la speranza di poter avere qualcosa dalla vita e di essere qualcosa di più dell’inutile mediocrità quale era.
Ma la cosa peggiore non era aver perso tutto ma esser stata una delusione per tutti quelli che aveva di più cari. Aveva visto il loro sguardo disgustato mentre la guardavo, quel loro nemmeno tentare di nasconderlo, sbattendoglielo in faccia ogni volta che la vedevano.
E lei che aveva credito di rappresentare qualcosa per loro, qualcosa per la quale provassero affetto. Qualcosa alla quale volevano bene.
Ma per quanto lei avesse tentato di farsi apprezzare, nulla era mai stato abbastanza, nulla gli aveva fatto comprendere quanto lei tenesse a loro e alla loro approvazione. Nulla di quello che aveva fatto era stato in grado di mutare il loro sguardo in qualcosa di vagamente simile all’affetto. L’unico sentimento che i loro sguardi e erano stati in grado di riflettere era stato l'orrore e il disgusto. E l'indifferenza, che forse era la peggiore tra tutte. Forse nemmeno se ne erano resi conto ma da tempo avevano cominciato a trattarla come una cosa, non più come una persona. Come qualcosa inutile e in grado di non far nulla e leggendolo sempre nei loro occhi, sentendosi continuamente accusata dai loro gesti e dai loro silenzi ne era stata travolta.
A volte questo l'aveva colpita in maniera più forte, facendolesi rendere conto di come loro la vedeva e del modo in cui la consideravano, facendola scattare perchè non in grado di stare zitta. Si era arrabbiata, aveva alzato la voce e si era spinta troppo oltre, dicendo cose che non avrebbe avuto intenzione di dire e ricevendo di contro parole che avrebbe sperato mai nessuno avesse potuto pensare. Dopo questi litigi era sempre finita con lo star male, rinchiudendosi in sè stessa, lasciandosi logorare dal dolore e dalla disperazione.
Quella stessa disperazione che ora le annebbiava la vista, riversandosi in quelle lacrime che nate dal profondo del suo cuore scivolavano silenziose sulle sue guance, quasi in una muta anticipazione di quello che stava per fare. Ma la cosa triste e che, dovette ammetterlo, aveva una qualche vena ironica, era il fatto che sapeva che sarebbe stata l’unica a piangere la sua perdita.
Nessun altro ne avrebbe sofferto e proprio per questo doveva farlo. Andarsene avrebbe significato rendere le cose più semplici a tutti gli altri.
E magari senza di lei sarebbero finalmente potuti essere felici. Lei non avrebbe più interferito con loro, la loro esistenza sarebbe proseguita lieta e la cosa che così tanto li disgustava sarebbe svanita via da loro, quasi non fosse mai esistita.
Per quanto si sentisse dilaniata nel profondo per quello che stava per fare, per quanto piccoli brividi di paura le scorressero lungo il corpo, implorandola di ripensarci, aggrappandosi a lei con le unghie e lacerandola dall’interno, gli angoli della sua bocca non poterono che sollevarsi leggermente alla prospettiva di potersi rendere finalmente utile, forse per la prima volta nella sua vita.
Era l’unica cosa che le era rimasta da fare per fargli capire quanto fosse grande l’amore che provava per loro. Rinunciare alla propria vita per fare in modo che la loro potesse essere sempre felice e perfetta.
Per una volta, forse, non li avrebbe delusi.
Non doveva più combattere per essere qualcuno che non era, non doveva più combattere per poter essere accettata e amata.
Doveva solo lasciarsi andare.
E fu proprio ciò che fece.
I suoi piedi scivolarono sulla superficie lignea, abbandonandola, convinti di precipitare al suolo, forse illusi dai salti e dalle corse precedenti. Ogni volta che che avevano abbandonato il pavimento, la strada o qualsiasi altra superficie, erano sempre tornati indietro, riprendendo il loro posto nel mondo. Andando avanti, proseguendo senza mai arrendersi.
Ma questa volta era differente. Non avrebbe mai più toccato il suolo. Non sarebbe scomparsa o corsa via; sarebbe solo rimasta sospesa, forse per un attimo o forse per sempre, catturata da quella corda che lei stessa aveva affrancato e aveva annodato affinchè reggesse al peso del suo corpo.
La fune cominciò immediatamente a stringersi, serrandosi attorno alla sua gola, in un mortale abbraccio senza via d’uscita. Un dolore lancinante nacque sul suo collo, i muscoli si contrassero all’esagerazione, tentando di opporre resistenza a quella sempre maggior stretta mentre l’adrenalina proruppe in lei, gettandola in panico.
L’istinto di sopravvivenza tentò di prendere il sopravvento, senza perder tempo a tentar di farla inutilmente ragionare ma guidando immediatamente il suo corpo. Le mani scattarono rapidamente alla fine, afferrandola, tentando di allentarla. Le unghie vi si conficcavano all’interno, scivolando e saettando sul suo collo, aggiungendo bruciore alla sensazione di soffocamento sempre più forte. Una serie continua di  scariche  era partita dalla sua gola, dal bruciore ora sostituito dalla sensazione di vuoto e dal lancinante dolore. Il respiro era affannato, faticoso. Il cuore batteva all’impazzata, minacciando di fracassarle la gabbia toracica per andarsi a salvare dall’imminente fine, La testa le doleva, prendendo a girare vorticosamente e la vista aveva cominciato ad annebbiarsi mentre lei annaspava, scalciando con tutti le sue forze spinta dal desiderio di voler sopravvivere.
Un dolore lancinante le trapassò un polpaccio mentre il tonfo sordo della sedia sulla quale fino a poco prima era in piedi si propagò attraverso la stanza, rieccheggiando e coprendo per un istante i suoi rantoli disperati, destinati rapidamente a spegnersi così come pure i suoi battiti, ora via via sempre più deboli.
Per quanto tentasse disperatamente di prendere ossigeno, di riempirsi i polmoni e tornare a respirare, la corda le impediva ogni possibilità di riprendersi. I muscoli del suo corpo erano testi e tremanti nel loro ultimo tentativo di salvarla, attraversati da un dolore privo di conforto ma che attendevano con ansia il sopraggiungere di una cura.
Ma vi era solo un’unica cura possibile per lei, l’unica che avrebbe risposto alle sue preghiere e che le tese tendendole una mano, risucchiando da lei ogni rimasuglio di energia rimasta.
Le braccia le scivolarono lungo i fianchi mentre le gambe calmavano la loro lotta, sfinite e non più in grado di opporsi ad un destino che l’aveva prosciugata delle proprie forze. Un velo opaco calò sui suoi occhi, oscurandole la vista di quel mondo dal quale era stata così tanto odiata e disprezzata e a cui ora stava dando il proprio definitivo addio.

Addio al mondo.

Addio alla vita.

La fine della sua esistenza.

L’inizio dell’altrui felicità.